
Eravamo nel freddo marzo del 2014 e sulle verdeggianti montagne calabre giunse voce che di lì a poco sarebbero arrivati i tagliatori di alberi. Il movimento degli alberi, che fino ad allora aveva perso diversi compagni tra lacrime di resina e linfa calda, si spostava, ogni anno, lentamente, verso il Nord ma questo non bastava per mettersi al riparo. E questo da epoche remote. Già al tempo dei bretti, con la conquista dei romani, quegli alberi ad alto fusto, coperti di resina con le chiome che cambiavano colore dal verde scuro al grigio argento nella luce cangiante delle giornate fino a ricoprirsi come di glassa bianca sotto le nevicate, venivano tagliati e portati via verso Roma. Si racconta che nel corso del tempo gli abitanti di quei boschi avessero imparato a riconoscere il suono del pianto degli alberi che risuonava fino a valle. Quell’anno, i pini larici, gli abeti bianchi, i faggi e il sottobosco, marmotte, tassi, lupi, volpi scoiattoli, si riunirono per discutere e decidere insieme una strategia per resistere. Le assemblee duravano notti intere fino all’alba, in un clima di forte attenzione e collaborazione. Alla fine si decise che le radici, cambiando posizione nel terreno, avrebbero creato una trincea intorno alla quale i rovi, a loro volta, sarebbero cresciuti costruendo una barriera. Altre trappole furono costruite qua e là, riempite di sterco di mucca e coperte da muschio. Continue reading