Una storia ordinaria….

7 gennaio 2013 alle ore 10.39
Rovistando tra oggetti, giornali e foto dimenticate nell’oblio dei rifiuti del tempo, ci si può imbattere in storie ordinarie e straordinarie, in piccoli frammenti di vita e di militanza che ritornano a vivere…Letteratura e Conflitto_ Unical vi propone la lettura di un bellissimo racconto di Erri De Luca resuscitato dalla polvere dei vecchi quotidiani ammuffiti. In un banale giornale del 2006, soffocato tra fatti di cronaca e stupidi editoriali, scoviamo per caso uno stupendo ritratto di Napoli nella clandestinità della lotta armata degli anni settanta…. 
 
 
A sollevare la fronte s’incontrava il vulcano. Era accampato a oriente della città, ma pure se guardavo l’opposto lo sapevo appoggiato a pappagallo sulla spalla. A Napoli si cresce in una tazza di golfo che fa stringere gli occhi sotto il maestrale lucido e con porte sbattute dallo scirocco, spugna che cancella i contorni all’orizzonte. Un’isola stesa in larghezza davanti al lungomare chiude il sud. Per noi finisce a Capri e a Punta Campanella.Napoli. Così, Napoli e basta, nessun appunto accanto al nome lasciò nel suo diario il russo Anton Cechov in visita. Napoli, punto. La vide così un giorno di aprile del 1896, un posto con un nome sufficiente. Nessun altro viaggiatore fece alla città la grazia di non aggiungere altro. Nessun altro si trattenne da una lode o da un insulto. Napoli, eccesso di ammucchiati e deficit di calorie, ci pensava da sola ad aggiungere spezie. L’ultima nel mio tempo era la sfumatura grigio chiara delle navi di un esercito venuto per la guerra e mai più ripartito. In mezzo al golfo le fortezze della sesta flotta degli Stati Uniti stavano più ad …. attrazione di missili puntati contro, che a protezione. Pratici di terremoti ed eruzioni, i napoletani s’infischiavano d’essere pure un bersaglio nucleare.Gli americani erano ricchi e forti, ma per i locali restavano sempre tonti da alleggerire. Il loro sbarco in libera e sfrenata uscita era l’unico turismo di piazza. L’altro, quello civile, scavalcava a salto la città per raggiungere isole, Pompei, Amalfi e sorelle.  Dalla finestra del terzo piano la padrona di casa indicava la bellezza del suo panorama all’inquilino nuovo: «Là tra quei due palazzi si vedono gli alberi del Gianicolo». Facevo di sì con la testa pensando: «Potete dipingere il sole, signo’: che mi rappresentano due platani incastrati, io esco da sotto la spalla di un vulcano, dalla sua ascella di zolfo sdraiata su un materasso di ginestre, chisto ‘o vulite chiamma’ panorama?».  La donna voleva piacere insieme alla sua casa. Aveva trovato un bell’avvocato per inquilino, almeno così credeva. Avevo pagato un anno di affitto anticipato, in contanti. Le avevo detto che dovevo seguire una causa importante e non mi piaceva di stare in albergo. Invece ero agli sgoccioli. Quella era l’ultima stazione. O riuscivamo a compattare i resti o c’era da cambiare continente. Intorno a noi cadevano a centinaia gli arruolati della nostra guerra irregolare. Premi grandiosi, impunità totali per chi denunciava i propri compagni. Roma era ancora un buon retroterra. E’ una città che non fa caso a chi c’è, a chi non c’è. I secoli papali l’hanno temprata alla derisione dei pubblici poteri e all’indifferenza per i forestieri. Era ancora un buon posto per noi residui di un reparto sbandato.  Sulla porta una targa di ottone mi faceva avvocato: avv. S. Vergine. Di causa persa, disse il compagno che faceva da collegamento. Ma perché Vergine, ero di quel segno, chiese. Non t’impicciare, risposi. Che deve sapere? E’ una scaramanzia, non sono stato ancora preso, perciò sono vergine, S. Vergine.

Nell’appartamento sistmai il nostro arsenale e gli ultimi soldi. Alla finestra misi un canarino in gabbia, preso a Porta Portese. Quando si sta clandestini si protegge meglio l’apparenza con qualcosa di strano. Alla gente serve un dettaglio per archiviarti: ah sì, quello del canarino. Stavo alla finestra a controllare la vita della strada, imparare facce e orari per accorgermi al volo di un estraneo. Me l’ero cavata bene fino a quel tempo. Dicono che ho gli occhi pure dietro la testa. Uno cresciuto con un vulcano addosso, sviluppa la vista della nuca. Perciò mi accorsi di un appostamento. Qualcuno intorno all’isolato spiava. Un furgone parcheggiato qualche ora di troppo, una coppia che si tratteneva in macchina, poi un inizio di lavori intorno a un tombino. La casa era sorvegliata. il nome di buon augurio, Vergine, vacillava. Non uscii per due giorni. La terza notte li vidi arrivare. Circondarono in silenzio. Eccomi al finecorsa, sperimentato da tanti di noialtri. A freddo avevo stabilito che non mi sarei arreso. Niente tempi supplementari: interrogatori, processi,sbarre a vita. Se era arrivata la sconfitta, finiva lì, in quell’appartamento con vista panoramica sul niente. Si può premeditare quello che si vuole,però solo sul posto e sul momento sai se manterrai o no. A caldo cosa stavo per fare: arrendermi o saltare all’inferno? A caldo non cambiai risposta. Mi sdraio sul pavimento davanti alla porta con le armi intorno. Tiro su il cane alle pistole, appoggio le braccia sulle ginocchia e punto. Avrei sparato dal basso a due mani sui primi, e buonanotte. Era semplice, era venuto il minuto di morire. Hai campato abbastanza. Mi detti del tu.

Niente saluti ai parenti lontani il meglio che potevo fare per loro era tenerli lontani. Per le scale un fruscio di passi, sono all’ultima rampa, sono pronto, al buio. Passi, continuano a frusciare, cosa aspettano? Ne salgono ancora, in quanti si sono voluti disturbare? Ho sete. Peccato, potevo pensarci prima.  Allora? niente. Ancora un altro minuto di rumori, poi la porta sfondata: non la mia. Hanno sfondato al piano di sopra. Si sono sbagliati. Possibile che si sono sbagliati. Se ne accorgeranno e scenderanno. Resto sdraiato. Nell’appartamento di sopra dei gridi, scompiglio, poveracci che sveglia, corpi sbattuti, tonfi, ordini brevi. Un impulso di collera mi passa per i nervi assiderati, si sfoga in calore: imbecilli, sto qua, sfondate qua, vi sto aspettando. Nel buio fisso la porta nera con l’impazienza di uno spettatore in sala, «quanno s’aíza ‘stu sfaccimm’ e sipario?», quando si alza vergine, S. Vergine,  questo dannato sipario? Metto in italiano le mie frasi soffiate secche in napoletano, che è buono a questo, a fare presto, a saltare addosso. Non ci avevo pensato prima, di morire in napoletano. Sono uno che nei momenti convulsi di un’azione sta zitto e compresso. Invece adesso no, quando entrano, quanno tràseno, le scarico in dialetto le cartucce. Mannaggia alla sete, forse faccio in tempo ad alzarmi e bere una sorsata, no, stanno già qua. Per le scale ordini bruschi, via, via. Scendono, rieccoci. Alzo di nuovo le due armi verso l’ingresso. Scendono. Scendono senza fermarsi. Che canchero gli piglia? Sento il portone spalancarsi. Mi tiro su e vado alla finestra: stanno caricando su un furgone due in manette. Chi sono? Con chi se la sono presa al posto mio? Dalla radio a mezzogiorno vengo a sapere che hanno arrestato due di un’altra organizzazione clandestina. Abitavano al piano di sopra. A raccontarlo oggi a una tavolata di ragazzi, vedi le facce divertite di chi ascolta una storia di briganti, alcolica e speziata. All’epoca era invece per noi braccati una storia ordinaria. Era Napoli, punto e basta, come la scrisse Cechov sul diario. Abitavano al piano di sopra, stesso palazzo, stessa scala. Li ho incontrati un paio di volte, una coppia perbene. Per continuare la guerra ci siamo travestiti. Incontrandoci non potevamo riconoscerci come avveniva invece in piazza negli scontri, dove ci si aiutava e ci si sorrideva in mezzo al fumo. Ci siamo costretti a interpretare gli altri. Ma il ruolo degli altri lo sanno fare meglio loro. Ci scoprono lo stesso, per una denuncia, una spiata. E allora resta il rammarico di non esserci riconosciuti in tempo per darci una mano. Non si erano accorti della casa sorvegliata. Sono usciti in manette portati di peso, lei col pigiama, lui in mutande e maglietta, scalzi. E’ finita, lo capisci, è finita e di noi si salverà soltanto qualche spicciolo? Mi ridò del tu mentre penso al da farsi. La casa resterà sotto controllo per qualche giorno, per vedere se qualcuno del loro gruppo ci va senza sapere degli arresti. Aspetterò. Intanto ho già levato il canarino dal balcone, segnale concordato di pericolo. Poi salterò l’Atlantico. Pensieri di giorno inoltrato e di armi rimesse in posizione di sicura, ma finché sto alla finestra a sbirciare le mosse convulse della notte, il pensiero battente ripete che è notte piena e io sono ancora vivo. Ancora vivo, che lotteria è questa in cui sono finito? Nel tiro a bersaglio al Luna Park hanno abbattuto due orsetti prima di me. La pallina è finita nella vasca con due pesci rossi vicini alla mia. Il mazzo è rimasto sparigliato, il cartaro ha perso un punto. Pensieri di alleggerimento mi aiutano a smaltire l’arricciatura dei nervi. Ancora vivo, un governatore da qualche parte ha sospeso la sentenza, la mia e di chi mi sarei portato dietro. Ho sete, bevo una bottiglia d’acqua davanti alla finestra. Nel buio verso il Gianicolo due platani incastrati tra le case sorpassano in altezza la città. Che panorama spettacolare, che vista sopra il seguito aggiunto alla mia vita, altro che vulcano.

 

 Erri De Luca.

racconto pubblicato nelle pagine di repubblica il 16 luglio del 2006

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