Di scirocco, barbari, briganti e banditi

Qualche parola delirante dal bagnasciuga

Tornare a Reggio da emigrato di seconda generazione mi pone sempre molte domande. Non sono né carne, né pesce, né dentro a pieno a questa terra, né completamente al di fuori da non conoscerne alcuni meccanismi, alcune vene, alcune particolarità. A cavallo tra due mondi si dice a volte. Il mio sguardo sui luoghi che attraverso è quindi figlio di questa situazione. Testimonia la necessità di trovare delle spiegazioni, su di me, sul posto da cui provengo, certo, sulle mie radici perse tra le fronde degli uliveti e dei boschi di pini marittimi, sul dove e come, ma anche sui tanti enigmi che nasconde questa terra bellissima e orribile, violenta e pacifica, dolce e acre allo stesso tempo. 

Percorrendo la statale 106, quella che collega Reggio a Taranto, come spesso succede nel guardarmi intorno ho pensato ad una terra segnata da una storia antichissima: i paesi grecanici arrampicati sulle montagne, le rovine romane e il poco che resta dei castelli e dei presidi normanni e borbonici, la fabbrica della Coca Cola e i mausolei di una politica industriale mai avviata pienamente, ma sempre capace di divorare e distruggere un territorio in poche decadi. Una storia, la nostra, che è una storia di colonizzazioni, dalle lance dei greci fino ai dollari sonanti dei mercati internazionali.

Molti hanno attraversato le strade della Calabria da conquistatori, e molti sono riusciti nei loro intenti, sfruttando e imponendo il loro dominio. Ciò nonostante c’è qualcosa nel sangue  di questo popolo che è estraneo a tutti coloro che hanno messo le loro bandiere e i loro stendardi sulle rive o tra le montagne dell’Aspromonte. C’è qualcosa che scorre nella caparbietà, nella testardaggine che ci contraddistingue, che non si è esaurita. Qualcosa che sta tanto nelle nostre anime più profonde quanto nel vino duro e agricolo dei vigneti di qui giù, quanto nelle montagne brulle, antiche e stanche, addolcite dal vento, spaccate dal sole, franate dalla pioggia e dall’incuria dell’uomo, montagne certo basse e anziane, ma comunque imponenti e scalcinate, rugose e lanciate verso il cielo. C’è un’anima barbara nel nostro sangue, un’anima che con costanza e follia da un dominatore all’altro ha continuato a costruire, distruggere e ricostruire a modo suo. Un’anima che né le magnifiche culture della Magna Grecia, né il benevolo e severo controllo di Roma, né lo sfarzoso e poco interessato dominio borbonico e tanto meno le violente vicende dell’unità d’Italia hanno scalfito. Se mai le culture si sono mescolate, si sono impastate in un magnifico meticciato di occhi azzurri tra capelli scuri, di nasi arabi tra visi nordici, di lingue francesi tra dialetti greci, ma non hanno mai rimosso quella radice barbara. Se la Calabria è stata conquistata prima con le spade e con gli scudi e poi con i soldi e la corruzione, non è mai stata conquistata pienamente in quest’anima. Un afflato di resistenza, nascosto e invisibile spesso, a volte vigliacco, a volte ibrido e contraddittorio, un velo di olio sull’acqua, un velo di odio nella calma. Questo non per santificare qualcosa, ma nel materialismo storico di chi da invasione ad invasione si è sempre opposto ai conquistatori, da barbari, da briganti, da ribelli. Oggi quell’afflato è stanco e frammentato, ma si vede ancora, ancora se ne sente la presenza.

Anche la ‘ndrangheta a suo modo testimonia questa tensione, sebbene espressione violenta, gattopardiana e spietata del capitalismo più moderno, capace di costruire una narrazione, delle forme delle relazioni sociali e anche un mito costituente egemone in questo territorio, sebbene capace in un gorgo tra tradizioni e modernità, tra passato e futuro a sfruttare indisturbata molto meglio di altre industrie del nord, non solo questi luoghi, ma anche altri a latutidini ben distanti. Certamente da combattere, ma non nei salotti di cultura o nei talk show quanto nella materialità del quotidiano di molti.

Persino il Dio che così tanto viene invocato qui, tra le miriadi di chiese che cospargono i paesi, non è il Dio unico dei cristiani, ma è un dio tra gli altri, quelli che dietro i volti dei santi e delle madonne nascondono il paganesimo di un rapporto mai domato con la natura. In tutta la sua eloquenza anche la Chiesa non è riuscita a colonizzare completamente l’anima di qui.

Quell’afflato di resistenza che, nella diaspora che vede 32 milioni di calabresi in giro per il mondo e solo 6 di questi che vivono ancora in calabria, ha alimentato lotte e rivolte nel nord Italia, la rude razza pagana, e nelle Americhe senza libertà. Lì dove per fuggire da una miseria enorme si è finiti in una ancora più crudele. Dove la nostra cultura barbara non solo si doveva piegare al colonizzatore ma doveva aderire entusiasticamente ai suoi tempi, ai suoi modi e alla sua organizzazione della vita.

Spesso mi sono chiesto perché molte bellissime testimonianze del passato non venissero valorizzate qui in Calabria, ma venissero abbandonate all’incuria e all’abbandono. E le risposte sono state molte, a volte convincenti a volte meno, sicuramente la miopia degli amministratori che si sono succeduti al potere, una scelta specifica nel continuare a deprimere un territorio per sfruttarlo, ma forse c’è anche un motivo che è più profondo e cioè che quelle rovine, quei castelli, quelle guarnigioni, non appartengono alla storia dei calabresi, ma a quella degli invasori. Certo riappropriarsi di una narrazione storica, vorrebbe dire anche riprendersi questi posti e farli vivere nella memoria, ma con la coscienza che la loro presenza è ed è stata ostile.

Di certo non si può insegnare ai calabresi a fare la rivoluzione, tanto meno posso io da immigrato di seconda generazione, sarebbe come provare ancora una volta a colonizzarne l’anima, ma si può riscoprire quell’afflato di resistenza nascosto e passivo, stanco e difficile. Si può provare a sostituire il concetto di onore, individuale e utilitario a chi comanda, al concetto di orgoglio, nella sua declinazione di appartenenza collettiva ad un’identità, aperta, viva e sociale.  Perché quel sentimento di resistenza possa costruire sulle rovine che continuano a lasciarci i conquistatori.

 

Jonnie Walker

 


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